Piero Vigutto, professione consulente di direzione per la gestione delle risorse umane, dopo la laurea in psicologia con una tesi sugli effetti del clima aziendale sulla sicurezza e la specializzazione in psicologia del lavoro e delle organizzazioni, affronta varie esperienze in grandi gruppi aziendali del nord Italia e fonda la HR&O Consulting.
Ma Piero non si rispecchia solo nel suo ruolo professionale: è anche scrittore, saggista e blogger. Ama viaggiare e leggere ed è perennemente affascinato dalla natura umana.
Ho scoperto le sue parole leggendo gli articoli che ha scritto per SenzaFiltro e ho trovato da subito affinità tra le mie idee e le sue, tra il suo modo di concepire l’umanità del lavoro e la mia visione di quello che il lavoro rappresenta per le persone.

Abbiamo chiacchierato a lungo. Remando insieme, al termine della navigazione siamo approdati sulla costa sicuri di aver compiuto un tragitto che ha arricchito le nostre vite di tasselli nuovi. Perché parlo di remi, di viaggi e di tasselli? Perché questa intervista, come ogni confronto con gli altri, mi ha confermato che saper ascoltare è una dote da coltivare e che dalle persone avremo sempre qualcosa da imparare.
Dunque, occhi aperti e menti affamate di stimoli, vi presento il nostro viaggio. 


1) Il tuo lavoro consiste nel fornire supporto alle imprese per la gestione del personale. Cosa vuol dire per te essere consulente HR?
Descrivendo la tua professione parli di Innovazione, Competenza e Qualità individuando in essi i punti cardine della tua filosofia lavorativa: come metti in pratica questi concetti?

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Piero Vigutto

La parola consulente non è adeguata a descrivere la mia professione. Il consulente consiglia, io invece credo che in azienda si debba entrare in punta di piedi senza dire “ti consiglio di fare così”. Per questo preferisco definirmi partner e per la stessa ragione non mi piace usare il termine clienti. Ad un cliente posso vendere il mattone, ma se sono partner costruisco un castello perché sento l’azienda anche un po’ mia, ho una propensione a costruire anziché a cercare di convincere gli altri della bontà delle mie idee.

Quando entro in un’impresa cerco di capirne le necessità, ed è quello che secondo me si dovrebbe fare sempre in questo mestiere. Se individui le necessità hai fatto goal, ma devi anche rispondere a queste necessità e spiegare alle persone come intendi farlo perché non puoi dare per scontato che loro capiscano al volo quello che intendi. Su questo tema e sull’effetto gabbiano ho scritto un articolo in cui sottolineo quanto sia importante comunicare in azienda.

Nel mio lavoro metto in pratica l’innovazione attraverso lo studio: non solo con i libri ma anche immergendomi nella realtà. Quando visito le aziende chiedo sempre di vedere tutto, anche la produzione: conoscere l’odore dell’azienda e le persone che la animano è basilare per me.
La qualità è un aspetto imprescindibile. Per completare un’attività posso impiegare anche più ore di quelle preventivate, ma non addebito all’azienda quelle ore in più perché le ho investite per fare bene il mio lavoro. Serve tanta ricerca degli strumenti migliori a minor impatto economico e a maggior impatto sulle persone.
La competenza infine deriva dalla scelta di circondarsi di persone di qualità ed è fatta di studio, ricerca, esperienza, dal saper dire “questa cosa non la so” e spingere se stessi a fare di più. Scrissi su SenzaFiltro un articolo intitolato L’incompetenza necessaria per ribadire che se non hai consapevolezza di non sapere, non ti confronterai con chi sa più di te.
Il confronto, il rapporto con gli altri, le reti di persone ti arricchiscono. Se qualcuno mi chiede un parere investo volentieri il mio tempo perché il confronto è sempre crescita che ci ripaga largamente dell’investimento fatto.

 

2) Qual è la tua definizione di Risorse Umane e in che misura la tua professione ti ha fatto comprendere le persone? Nel corso degli anni c’è stato qualcosa che ti ha spiazzato di questo lavoro? La tua professione è stata in grado di influire sul tuo modo di relazionarti agli altri nella vita privata?

La mia definizione preferita corrisponde a quella di Umane Risorse, presa in prestito da Osvaldo Danzi.
Il concetto racchiude infinite sfumature perché l’essere umano ha in sé implicazioni affascinanti e il mio lavoro consiste proprio nel capire se e come le caratteristiche di ciascuno si intersechino con quelle degli altri. Ho approfondito questo tema nel libro sulla selezione del personale nel quale spiego che, a parità di competenze tecniche, è preferibile scegliere una persona che possiede competenze trasversali contestualizzabili e in grado di creare il patrimonio dell’impresa. Colmare un gap tecnico non è difficile, ma è difficile trovare persone che si intersechino bene con le altre.
Non tutti sono inseribili in un determinato gruppo ma è importante spiegare perché: mai mandar via una persona facendola sentire inadeguata. Siamo tutti tessere di un puzzle ma a volte capitiamo nella scatola sbagliata e se cambiamo scatola magari ci intersechiamo meglio.

Credo che per fare questo mestiere sia fondamentale avere la propensione ad andare verso gli altri, essere empatici e saper rinunciare al proprio ego. Nella mia prima esperienza come direttore del personale ho avuto conferma di quanto siano importanti l’ascolto e l’esperienza. All’epoca dicevo ai membri del mio gruppo che non erano operai o impiegati ma prima di tutto persone con un universo di necessità. Adesso il tema del welfare sta riscuotendo maggiore attenzione e nel mio ultimo libro Non bastavano i buoni pasto? ne parlo come di uno strumento di engagement, uno strumento più potente se usato per sedersi al tavolo e ascoltare. Ma ci vuole tempo e fatica per riuscire ad ascoltare veramente le persone.
Marco Fadini, AD di Lamitex, è un esempio di welfare ben fatto. Quando abbiamo lavorato insieme abbiamo somministrato ai dipendenti un questionario, raccolto i dati e restituito i risultati in sessione plenaria illustrando cosa volevamo fare e con quali strumenti. Poi c’è stata la contrattazione individuale e l’applicazione di un piano di welfare disegnato sulle esigenze del singolo. Un’esperienza bellissima di lavoro ben fatto, per dirla come Vincenzo Moretti, che ha gratificato i dipendenti per primi.
Uso questo esempio per dire che non si può decidere a priori che servizi fornire alle persone senza chiederlo prima a loro.

Cosa mi ha spiazzato del mio lavoro? Mi servo di una metafora: se stai navigando e la tua barca ha una falla, è meglio cercare di tamponare il buco. Se ti giri dall’altra parte facendo finta di niente, la barca va più lentamente e arriva dietro alle altre.
Allo stesso modo se in azienda c’è qualcosa che non funziona, dillo! Quello che mi spiazza è che in alcuni luoghi di lavoro non c’è il dialogo sufficiente a responsabilizzare le persone: si tende a dire “non hai fatto questo” anziché “quali strumenti ti posso dare per far meglio?”
Il salto culturale è difficile perché siamo abituati sin dalla scuola ad essere giudicati e quindi andiamo a lavorare con questa mentalità. Fare il salto significa dire “siamo sulla stessa barca, diamoci una mano a vicenda”, che tradotto significa fare un passo indietro e ascoltare gli altri.

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Photo by Trinity Treft on Unsplash

 

3) A proposito di ruoli e di identità, è molto diffusa l’idea che il dipendente debba sposare gli obiettivi aziendali per sentirsi pienamente parte della propria organizzazione. Ma l’identità professionale non può coincidere con quella personale perché altrimenti si rischierebbe di confondere lavoro e vita privata.
In che modo secondo te l’azienda può aiutare le persone a sentirsi coinvolte negli obiettivi aziendali senza far perdere di vista l’identità personale?

Non puoi convincere le persone a far qualcosa a meno che loro non siano convinte di volerlo fare.
Ti faccio un esempio. Il direttore HR di una grande azienda lavorava nel suo ufficio ma indossava sempre giacca, cravatta e scarpe anti infortunistica. Un giorno gli chiesero come mai indossasse le stesse scarpe degli operai e lui rispose “Io giro negli uffici ma vado anche in produzione. Non posso dire agli operai di mettere le scarpe anti infortunistica, devo essere io stesso a usarle”. Ecco, l’esempio che dai agli altri è il primo passo e ognuno si circonda di persone che gli assomigliano: le persone aggressive si circondano di persone aggressive, le persone amorevoli di persone amorevoli, le persone che ascoltano si circondano di persone che ascoltano. Quindi in azienda, come nella vita, non convinci ma costruisci piano piano.
Tempo fa ho conosciuto Diego Caron, presidente della CARON A&D. Avendo ereditato l’azienda dal padre, all’inizio ha dovuto fare un gran lavoro per schiacciare le gerarchie. Ha portato gli uffici in produzione, ha responsabilizzato le persone affinché parlassero con lui delle problematiche aziendali e ci sono voluti anni per cambiare le cose.
C’è una bella frase di Voltaire che recita “Se tu del tuo tempo non accetti i cambiamenti, forse ne prenderai la parte peggiore“. In azienda è necessario saper cambiare traendo il meglio dal cambiamento e per fare questo devi essere il primo a dare l’esempio.

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Photo by jesse orrico on Unsplash

 

4) La strategia è spesso interpretata come un piano d’azione che miri all’aumento del fatturato e alla massimizzazione dei profitti, ma per me una buona strategia è quella che chiama in causa umanità, empatia, condivisione delle esperienze. Vedo la strategia di un’azienda più come un cammino da percorrere con agli altri. Cosa intendi tu per sviluppo strategico delle risorse umane?

L’azienda deve essere liquida perché in condizioni di variabilità di mercato deve sapersi adattare velocemente. Un liquido può essere più o meno viscoso: se l’azienda è molto viscosa avrà più difficoltà ad adattarsi al suo mercato, come avviene per un liquido versato in un contenitore di forma diversa da quello precedente.
Dunque un HR deve creare relazioni, strutture, modalità di relazione affinché le persone siano meno viscose possibile. Prima della strategia bisogna però definire l’obiettivo: solo una volta chiarito e comunicato l’obiettivo, possiamo identificare la strategia aziendale che nel caso delle risorse umane non è di tipo economico anche se impatta positivamente sul bilancio. Strategia significa anche chiarire qual è il livello di viscosità dell’azienda. L’HR secondo me deve essere in grado di sviluppare al meglio il potenziale e questo significa gestire efficacemente tutti i processi che riguardano le persone.

 

5) Se dovessi raccontare il tuo lavoro come fosse la trama di un libro, di un film o di una fiaba, quali personaggi e quale script sceglieresti? Dove ambienteresti il racconto? Quali sarebbero ostacoli, protagonisti ed elementi magici della storia? 

Penso che la storia di ognuno di noi sia unica e dunque non riuscirei a paragonare la mia esperienza lavorativa a un racconto finito perché c’è molto altro ancora da scrivere.
Però c’è un personaggio letterario a me molto caro al quale mi ispiro: il monaco de Il nome della rosa, Guglielmo da Baskerville.
Un uomo curioso verso la natura, la scienza e il comportamento umano, che non accetta i dogmi ma si fa delle domande, che non si accontenta di ciò che sa ma vuole guardare l’orizzonte là dove si nascondono meraviglie. Vorrei somigliare a lui perché Guglielmo da Baskerville ascolta ed è convinto che nell’altro ci sia sempre un orizzonte nuovo da esplorare.
Una frase che cito spesso quando faccio formazione è: “Se io ti do una moneta e tu mi dai una moneta, ognuno di noi torna a casa con una moneta. Se invece io ti do un’idea e tu mi dai un’idea, torniamo a casa con due idee”.
Per me questo è il massimo a cui si possa ambire: conoscere significa anche non stancarsi mai di confrontarsi con gli altri.

 

6) Sul tuo sito curi un blog dedicato ai temi risorse umane e dinamiche aziendali. In che modo la scrittura è entrata nella tua vita? Cosa ti ha insegnato e come è cambiato nel tempo il tuo modo di scrivere? 

La scrittura è entrata nella mia vita quando ho cominciato ad avere qualcosa da dire. Scrivere un libro per me significa organizzare diversi punti di vista e metterli insieme in maniera tecnica e professionale. Per questo motivo i miei libri sono pieni di schede e materiali da poter riutilizzare, di modo che altre persone possano applicare quello che descrivo.
La scrittura per il blog invece è un momento di riflessione. Penso, organizzo quello che voglio dire e butto giù qualcosa come fosse una sorta di catarsi: spesso i miei viaggi in auto mi aiutano perché mi servono a ripensare alle frasi che ho ascoltato, a quello che ho visto o che ho letto. Ho notato che i cambiamenti nella scrittura riflettono i cambiamenti nella vita. Qualche anno fa prima di pubblicare una pagina la rileggevo mille volte, ora scrivo più di getto, rileggo un paio di volte e cerco di esprimermi in maniera lineare.

 

7) In un articolo per SenzaFiltro scrivi: “Non invecchiare, professionalmente intendo, è una nostra scelta. Vogliamo coltivare la nostra unicità? Facciamo in modo di saperne più degli altri studiando, confrontandoci e imparando ogni giorno, non conservando gelosamente i nostri segreti, ma condividendoli con tutti. Come scrissi in un precedente articolo intitolato La gelosia della leadership, i veri leader cercano di migliorare se stessi ogni giorno e di allevare altri leader e non di creare follower.”
Il lavoro si ruba con gli occhi diceva tuo nonno.
Cosa può fare un HR per educare alla contaminazione delle competenze? Come si può sensibilizzare all’idea che dai colleghi si può imparare e che a loro dobbiamo trasmettere quel che sappiamo? 

Mio nonno è nato più di 100 anni fa e anche allora l’unicità di una persona si esprimeva in ciò che sapeva fare. Oggi è lo stesso ma il concetto è decisamente diverso.
Ricorro all’esempio dei dazi doganali. Se vivi nello stato X e vuoi mettere i dazi su un prodotto in modo che le tue aziende vivano, accade che le aziende non investono né in innovazione né in ricerca e sviluppo e alzano il prezzo dei prodotti ma senza concorrenza esterna. Nel momento in cui arriva un nuovo prodotto e vengono tolti i dazi, quelle aziende sono spodestate perché nel frattempo non hanno fatto nulla per migliorare i propri prodotti.
Il dazio doganale è un boomerang atroce e la stessa cosa vale per la condivisione delle competenze. Se non condividi, ti chiudi in te stesso e invecchi. Ho utilizzato la frase “il lavoro si ruba con gli occhi” per dire che se vuoi che accada qualcosa devi dare l’esempio. Non puoi sperare che gli altri condividano competenze se tu sei il primo a non farlo.
Se ci scambiamo le informazioni, cresciamo tutti.

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Photo by Jose A.Thompson on Unsplash

 

8) Il lavoro influisce su tanti aspetti della nostra vita e quel che siamo o diventiamo dipende dalle esperienze fatte. Nel corso del tempo sento di essere cambiata molto grazie al lavoro e grazie allo sforzo di comprendere i punti di vista degli altri. A volte mi riesce bene, ma in molti casi mi rendo conto che ho ancora tantissimo da imparare e altra strada da fare.
Quali lati di te sono cambiati grazie al lavoro?

Quello che ho capito nel rapporto con gli altri posso esprimerlo in inglese con il termine egoless, che in italiano vuol dire essere meno egocentrici. Questo l’ho imparato a mie spese grazie al lavoro: quando sei giovane hai molta energia e non capisci quando stai andando a sbattere contro un muro. Nella mia prima esperienza professionale ho avuto la fortuna di lavorare con un gruppo di persone con le quali avevo un rapporto umano. Il mio capo era ostico ma mi ha aiutato a capire alcune cose anche lasciandomi correre liberamente verso il mio muro di mattoni.
Quando sbatti contro quel muro di convinzioni cominci a fare qualche passo indietro allora inizi a capire, poi l’età e l’esperienza ti danno la pazienza di ascoltare.

 

9) Valutazione, formazione e gestione delle risorse umane sono attività imprescindibili per chi si occupa di persone in azienda. Quali competenze tecniche e qualità umane bisogna possedere secondo te per svolgere al meglio il lavoro di HR?

Per rispondere alla domanda vorrei ricordare le parole di un esperto HR che considero il mio mentore. Una volta gli dissi che invidiavo la sua cultura, lui mi rispose che “la parola giusta è gelosia” perché invidia deriva dal latino invidere e vuol dire “gettare il malocchio”, essere geloso invece vuol dire desiderare di somigliare a qualcuno.
Secondo lui l’HR oggi deve destreggiarsi in almeno sei o sette lavori perché deve saperne di formazione, di selezione, di contabilità, di buste paga, di leadership e avere un po’ tutte queste competenze tecniche. Se sei HR devi sapere a chi rivolgerti se non conosci bene un argomento ed essere in grado di coordinare il sapere degli altri.
Tra le competenze trasversali io ritengo sia basilare la capacità di ascoltare e di abbandonare la soggettività: un HR deve comprendere le necessità tecniche ed economiche dell’azienda ma anche le necessità delle persone. Deve tendere alla conoscenza, avere grandi capacità relazionali, astrarsi dal giudizio personale.

Nella mia intervista a Roberto Siagri di Eurotech lui afferma che se lavori con le persone e gli dici cosa fare, non è detto che quello che tu decidi sia giusto. Se invece responsabilizzi i dipendenti, aumenta la probabilità che una persona ti dia un’idea alla quale non avevi pensato e che si rivela davvero utile. Agire in questo modo porta a riflettere di più sul contributo degli altri.

 

10) Per me la motivazione è fondamentale: se da un lato contano misure di welfare e incentivi, d’altro canto servono stima, crescita, formazione, e la percezione di essere parte di un organismo vivo (l’azienda) che progredisce grazie alle sue persone. 
Cos’è per te la motivazione e come si coltiva in azienda?

Mi viene in mente il libro Lettera al padre di Franz Kafka in cui lo scrittore racconta di tutte le volte in cui il padre non è stato un modello da seguire.
In azienda la motivazione deve essere presente già nel dipendente, e in questo conta molto la fase di selezione. Ma la motivazione arriva anche attraverso l’esempio, che secondo me è tipicamente quello del buon padre di famiglia e cioè della persona che ti dice “bravo” se lo sei stato e ti riprende se hai sbagliato. In entrambi i casi ti spiega perché sei stato bravo e perché non lo sei stato.

 

11) A volte si tende a confondere il ruolo di leader con quello di manager, senza considerare la leadership come un’attitudine personale che prescinde dall’organigramma. Cosa rappresenta per te e in che modo pensi che il suo significato possa essere travisato?

Il leader formale è il capo, qualcuno scelto per ricoprire quel ruolo. Poi c’è il leader informale, che magari non ha un ruolo apicale in organigramma ma che sa guidare le persone. Leadership è un vocabolo spesso abusato: vedo corsi formativi sponsorizzati con la frase “Vuoi essere un buon capo? Frequenta il nostro corso di leadership“. Queste sono cose che non hanno alcun senso perché se vuoi essere un bravo leader devi essere un buon padre di famiglia, di certo non devi essere un capo, soprattutto oggi in un contesto in cui le aziende non hanno più bisogno di capi e le gerarchie si stanno appiattendo. Per fortuna quasi tutti hanno capito che più livelli di comando hai, più costi hai perché ci sono più persone impegnate a controllarne altre che a produrre valore per l’azienda.
Il leader per me è una persona da imitare e su questo tema consiglio di leggere La morale aziendale di Sergio Casella.

 

12) Nell’articolo Manca il tavolo rimarchi quanto sia importante dedicare tempo al confronto in azienda. Come hai sviluppato questa consapevolezza sull’utilità del dialogo? 

Molte idee le ho maturate nel tempo. Ho scritto questo articolo perché spesso in azienda manca la voglia di dire “sediamoci a parlare” e quello che motiva le persone invece è proprio la dimensione umana, avere qualcuno che si interessa a te perché glielo hai chiesto. Questo lo impari anche dagli errori, perché nessuno nasce imparato.

Nel mio percorso ho avuto la fortuna di incontrare più di un maestro e negli anni mi sono circondato di persone di qualità che non sono necessariamente luminari ma anche leader informali o persone incontrate per caso in treno, ad esempio. Spero di incontrare ancora tanti maestri sulla mia strada.

 

13) Vorrei chiudere l’intervista ricordando alcuni concetti della filosofia aziendale di Brunello Cucinelli: bisogna avere rispetto per le persone, utilizzare la tecnologia con garbo, dare valore ai propri collaboratori, riscoprire la bellezza, coltivare lo spirito e la mente attraverso la cultura. Ritrovo nel suo modo di intendere l’azienda gran parte del mio mondo interiore: la convinzione che lavorare vada oltre compiti e organigrammi, l’affermazione delle qualità umane, di quelle reali e palpabili capacità che vanno al di là di ogni titolo o competenza. In questa visione conta il modo di relazionarsi agli altri, il modo di fare le cose puntando ad un alto valore umano.
Quanto di te ritrovi nella visione aziendale di Cucinelli?

Nelle parole di Cucinelli ho ritrovato il pensiero di Olivetti, che però aveva una visione paternalistica dell’impresa, lui era il buon padre di famiglia che bada ai figli. Cucinelli invece è un filosofo antropologo dei nostri tempi e ricordo un’intervista in cui racconta di quando vedeva la privazione della dignità negli occhi del padre di ritorno dalla fabbrica. Oggi un lavoro che non ti dà dignità è il paradosso della schiavitù. Il lavoro deve dare libertà e dignità.
E mi collego a un discorso che ricorre spesso, con causalità diverse, e cioè all’idea che ci sia qualcuno che arriva e ti ruba il lavoro: una volta erano i meridionali, poi gli immigrati, oggi sono i robot. Ma il lavoro non è una cosa che ti possono rubare, le competenze che hai sono solo tue.
La tecnologia oggi è vista come nemica, ma se puntiamo sulla mente e sulle nostre qualità umane abbiamo già vinto.
Quando faccio incontri nelle scuole a volte i ragazzi mi chiedono “Cosa dobbiamo studiare per trovare lavoro?” e io rispondo “Questa è la domanda che avrebbe fatto mio nonno nella sua epoca, periodo storico in cui tutto cambiava lentamente”. Ora come ora non esiste una materia di studio che faccia trovare lavoro, bisogna studiare qualcosa che apra la mente e l’unico investimento che vale è quello in cultura: devi studiare quello che ti piace consapevole che all’ottenimento della laurea le prospettive saranno completamente diverse da quelle che avevi quando hai iniziato. Devi leggere libri, viaggiare tanto, lavorare durante l’estate, parlare con la gente e ascoltare. Se fai tutto questo esternamente sembrerai identico a prima, ma dentro sarai cambiato in meglio.
Il salto è tutto lì, ma sta a noi compierlo.

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Photo by Slava Bowman on Unsplash

Grazie a Piero per questo confronto che va oltre la professione di HR e sconfina in tutti gli ambiti della nostra vita. A dimostrazione del fatto che lavorare vuol dire sempre mettere il proprio mondo e la propria conoscenza al servizio degli altri essendo tuttavia convinti che ci sarà sempre tanto altro da sapere, da imparare, da studiare, da conoscere.

 

 

Laura Ressa

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Copertina: Photo by Slava Bowman on Unsplash


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Scritto da:

Laura Ressa

Classe 1986 🌻 Digital Marketing Specialist & Web Writer 🌻 Frasivolanti